La strega — Anton Pavlovič Čechov

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Si avvicinava la notte. Il sagrestano Savelij Gykin se ne stava sdraiato sul suo enorme letto nella casetta attigua alla chiesa e non dormiva, sebbene avesse l’abitudine di addormentarsi con le galline. Da un’estremità della sudicia coperta, fatta di multicolori pezzetti d’indiana cuciti insieme, sporgevano i suoi ispidi capelli rossicci, dall’altra i grossi piedi, non lavati da un pezzo. Stava in ascolto... La sua casetta era attaccata al muro di cinta e l’unica finestra dava nei campi. E su quei campi, in quel momento, si svolgeva una vera e propria battaglia. Non era facile capire chi era che mandava l’avversario all’altro mondo, e per la rovina di chi la natura fosse in tale subbuglio; certo è che, a giudicare dal rombo incessante, lugubre, c’era qualcuno che stava passando brutti momenti... Una forza vittoriosa inseguiva qualcuno per i campi, infuriava nella foresta e sul tetto della chiesa, picchiava rabbiosamente i pugni contro la finestra, lanciava oggetti all’impazzata e urlava, qualcun altro, vinto, gemeva e singhiozzava... Il pianto lamentoso si faceva udire ora fuori della finestra, ora nella stufa, ora sopra il tetto. In esso non c’era un’invocazione di aiuto, ma piuttosto una grande angoscia, e la certezza che ormai era troppo tardi, che non c’era più via di scampo. I cumuli di neve si erano ricoperti di una sottile crosta di ghiaccio; su essi e sugli alberi tremolavano lacrime, e per strade e per viottoli dilagava una fanghiglia scura fatta di mota e di neve sciolta. Insomma, sulla terra era giunta l’ora del disgelo, ma pareva che il cielo, attraverso il buio della notte, non se ne accorgesse, e con tutte le sue forze continuava a soffiare sulla terra ormai in via di sgelarsi, fiocchi di neve fresca. E il vento impazzava come un ubriaco... Non dava tempo alla neve di posarsi sulla terra e la faceva turbinare nelle tenebre a suo piacere.
Gykin tendeva l’orecchio a quella musica e si accigliava. Il fatto è che egli sapeva, o almeno indovinava, a che cosa mirasse tutto quello scompiglio fuori della finestra e di chi fosse opera.
«Io lo so-o!» borbottava, minacciando qualcuno col dito sotto la coperta. «So tutto, io!»
Presso la finestra, su uno sgabello, era seduta sua moglie, Raisa Nilovna. Un lumino di latta, posto su un altro sgabello, incerto e come senza fiducia nelle proprie forze, spandeva una luce fioca e tremula sulle sue belle e ampie spalle, sulle curve appetitose del suo corpo, sulla sua grossa treccia che arrivava a toccare il pavimento. Stava cucendo dei sacchi di rozza canapa. Le mani si muovevano rapidamente, mentre tutto il corpo, l’espressione degli occhi, le sopracciglia, le labbra tumide e il collo bianco, restavano immobili, immersi in quel monotono, meccanico lavoro, e pareva che dormissero. Solo di rado la donna alzava la testa, per far riposare un poco il collo affaticato, gettava una rapida occhiata alla finestra, al di là della quale infuriava la bufera, e di nuovo si chinava sulla tela. Il suo bel volto, col naso all’insù e le fossette nelle gote, non esprimeva nulla, né desideri, né tristezza, né gioia... come nulla esprime una bella fontana quando non c’è l’acqua.
Ma ecco che ha finito un sacco, l’ha buttato da un lato e, stirandosi languidamente, ha fissato il suo sguardo torbido, immoto sulla finestra... I vetri, rigati di goccioline, biancheggiavano di effimeri fiocchi di neve. Fiocchi che cadevano sul vetro, guardavano un attimo la donna, e subito si scioglievano...
«Vieni a letto!» brontolò il sagrestano.
La moglie taceva, ma ad un tratto le sue ciglia ebbero un guizzo, e nei suoi occhi brillò un lampo d’attenzione. Savelij, che per tutto il tempo aveva spiato da sotto la coperta l’espressione del suo viso, tirò fuori la testa e domandò: «Che c’è?»
«Nulla... M’è sembrato che passasse una vettura...» rispose piano la donna.
Il sagrestano si gettò via da dosso la coperta, con le mani e coi piedi, si rizzò in ginocchio sul letto e guardò con aria ebete la moglie. La timida luce del lumino rischiarò il suo viso butterato, peloso, e scivolò sui capelli irti e ruvidi. «Senti?» domandò la moglie.
Tra il monotono ululare della bufera colse anche lui un gemito sottile, appena percettibile, simile al ronzio di una zanzara quando vuole posarsi sulla guancia e si irrita di esserne impedita.
«È il postale...» brontolò Savelij, accovacciandosi sui calcagni. A tre verste dalla chiesa passava la strada postale. Nelle giornate in cui il vento soffiava dalla strada maestra in direzione della chiesa, gli abitanti della casetta potevano udire le sonagliere.
«Dio mio, chi avrà la voglia di viaggiare con questo tempo!» sospirò la moglie del sagrestano.
«Roba governativa, ti piaccia o no, tocca andare...»
Il gemito risuonò ancora un po’ nell’aria, poi si spense.
«È passata!» disse Savelij tornando a sdraiarsi.
Ma non aveva fatto in tempo a tirarsi addosso la coperta, che gli giunse all’orecchio, nitido, un tintinnio di campanelli. Il sagrestano guardò con aria allarmata la moglie, balzò giù dal letto e, dondolandosi sui fianchi, avanzò lungo la stufa. Il tintinnio di campanelli durò ancora per un poco e poi cessò di nuovo, come troncato di colpo.
«Non si sente più...» mormorò il sagrestano, fermandosi e osservando con gli occhi socchiusi la moglie.
Ma in quello stesso istante il vento batté alla finestra e portò di nuovo il sottile gemito tintinnante... Savelij impallidì, tossicchiò, e riprese a camminare strascicando sul pavimento a piedi nudi.
«Fa fare il girotondo al postale!» sibilò, lanciando alla moglie occhiate in tralice, cariche d’odio. «Senti? Gli fa fare il girotondo!... Io... io lo so! Credi che non... capisca?» brontolò. «So tutto, che il diavolo ti prenda!»
«Che cosa, sai?» domandò piano la donna, senza staccare gli occhi dalla finestra.
«Ecco, so che sono tutti maneggi tuoi, satanassa! Maneggi tuoi, che il diavolo ti prenda! La bufera, il postale che gira intorno... tutto questo è opera tua! Opera tua!»
«Ti ha dato di volta il cervello, stupido...» ribatté tranquilla la donna.
«È un pezzo che me ne sono accorto. L’ho capito subito, fin dal primo giorno che t’ho sposata, che nelle vene hai sangue di cagna.»
«Pfu!» si stupì Raisa, stringendosi nelle spalle e facendosi il segno della croce. «Segnati anche tu, imbecille!»
«Una strega è una strega,» continuò Savelij con voce sorda, piagnucolosa, dopo essersi soffiato in fretta il naso nel lembo della camicia. «Anche se sei mia moglie, e vieni da una famiglia di ecclesiastici, in coscienza lo devo dire che razza di donna sei... E come! Che Dio mi protegga e abbia pietà di me! L’anno scorso, il giorno del profeta Daniele e dei tre giovinetti, ci fu una bufera, e che successe? Entrò un artigiano a ripararsi. Poi il giorno di Alessio, servo di Dio, il ghiaccio sul fiume si ruppe e capitò qui il commissario di polizia. Tutta la notte, maledetto, la passò a chiacchierare con te, e la mattina, quando uscì di casa, e io gli gettai uno sguardo, aveva i cerchi sotto gli occhi, e le guance tutte incavate! Eh? Per la festa del Salvatore ci fu due volte temporale, e tutt’e due le volte venne a passare la notte qui un cacciatore. Ho visto tutto io, che possa crepare! Ho visto tutto! Oh, ti sei fatta più rossa di un gambero! Ah!»
«Niente, hai visto...»
«Eh! E quest’inverno, prima di Natale, nella ricorrenza dei dieci martiri di Creta, quando la bufera durò un giorno e una notte... ti ricordi? Lo scrivano del maresciallo della nobiltà perse la strada e capitò proprio qua, quel cane!... Guarda un po’ di chi ti era presa la voglia! Puah, per uno scrivano! Valeva la pena, per un tipo simile, di metter sottosopra il tempo che Dio ci manda! Uno scribacchino, un moccioso, un nanerottolo col muso tutto coperto di bitorzoli e il collo tutto storto... Fosse stato almeno bello, ma così, puah! Pareva il diavolo!»




Il sagrestano si fermò a prender fiato, si asciugò le labbra e tese l’orecchio. Non si udivano più le sonagliere, ma sopra il tetto passò una raffica di vento e nelle tenebre, fuori della finestra, si udì di nuovo un tintinnio.
«Un’altra volta!» esclamò Savelij. «Non per niente sta girando in tondo! Sputami in faccia se non è vero che sta cercando te! Il diavolo sa il fatto suo, è un buon alleato! Lo farà girare e rigirare, e alla fine lo condurrà qui. Lo so-o! Lo ve-edo! Non puoi nascondermelo, pupattola di Satana, lascivia idolatrica! Appena si è alzata la bufera ho capito subito i tuoi pensieri.»
«Ma che stupido sei!» sorrise la donna. «Credi davvero, in quel tuo cervello stolto, che sia io a far venire il maltempo?»
«Uhm... Ridi pure! Che sia tu o no, io questo vedo: appena il sangue mi si comincia a scaldare, ecco che subito viene maltempo, e, come viene il maltempo, capita qua qualche matto. Ogni volta succede così. Vuol dire che sei tu!»
Il sagrestano, per riuscire più persuasivo, si pose un dito sulla fronte, socchiuse l’occhio sinistro, ed esclamò con voce canterellante:
«Oh, follia! Oh, empietà giudea! Se fossi davvero un essere umano e non una strega, dovresti ragionare così nella tua mente: e se quelli non erano né un artigiano né un cacciatore, né uno scrivano, ma il diavolo con le loro sembianze? Eh? Così dovresti pensare!»
«Ma quanto sei sciocco, Savelij!» sospirò la donna guardando il marito con aria di compassione. «Quando il babbino era ancora vivo e viveva qui, tanta gente veniva da lui a farsi curare la febbre: dal villaggio, dai poderi, dalle fattorie degli armeni. Venivano quasi ogni giorno e nessuno li prendeva per demoni! Ed ora, se una volta all’anno, per il maltempo, qualcuno viene qui da noi a scaldarsi, ecco che tu, sciocco, ti meravigli e ti metti a pensare chissà quali stramberie.»
La logica della moglie turbò Savelij. Piantò I larghi piedi nudi, chinò la testa e si mise a meditare. Non era ancora del tutto convinto di quei suoi sospetti, e il tono sicuro, pacato della moglie lo aveva completamente sconcertato, eppure, dopo aver riflettuto un po’, scosse la testa e continuò:
«Capitassero almeno vecchi o storpi, no, son sempre dei giovani a chiedere di passare qui la notte... Come mai? E pazienza se si contentassero di riscaldarsi, no, quelli vengono per dar soddisfazione al diavolo. E no, donna, al mondo non c’è creatura più furba della vostra razza di femmine! Di vera intelligenza, Dio mio, ce n’è meno in voi che in un merlo, ma in cambio avete tanta di quella furberia diabolica, uh, uh! che ce ne salvi la Regina dei cieli! Ecco, senti come squilla il postale! La bufera era appena cominciata, e io già sapevo tutti i tuoi pensieri. Le hai fatte, le tue stregonerie, brutta tarantola!»
«Ma che vuoi da me, maledetto?» questa volta alla donna scappò la pazienza. «Ti appiccichi a me come la pece!»
«Mi sono appiccicato perché se stanotte, Dio non voglia, succede qualcosa... stammi a sentire!... se succede qualcosa, domani, appena farà giorno, vado a Djakovo da padre Nikodim e gli racconto tutto. Così e così, gli dico, padre Nikodim, vogliate scusarmi, ma è una strega. Perché? Uhm, volete sapere il perché? Ecco... Così e così. E allora per te saranno guai, donna! Non solo nel giorno del giudizio, ma anche nella vita terrena sarai punita. Non per niente nel messale ci sono scritte le preghiere per le persone della vostra risma!»
A un tratto qualcuno bussò alla finestra, in maniera così rumorosa e inconsueta, che Savelij impallidì e si rannicchiò dallo spavento. La moglie del sagrestano balzò in piedi e si fece anch’essa pallida.
«Per l’amor di Dio, lasciate che entri a riscaldarmi!» si udì una profonda, tremante voce di basso. «Chi c’è qui? Fate la carità! Abbiamo perso la strada!»
«E voi chi siete?» domandò la donna, timorosa di guardare alla finestra.
«Il corriere postale!» rispose l’altra voce.
«Non per nulla hai fatto le tue stregonerie!» esclamò Savelij con un gesto della mano. «Ecco fatto! Avevo ragione io... Ebbene, guarda cosa faccio!»
Il sagrestano fece due salti davanti al letto, poi si buttò lungo sul piumino e, bofonchiando rabbiosamente si rivoltò con la faccia al muro. Subito dopo sentì un soffio gelido investirgli la schiena; la porta cigolò e sulla soglia apparve una figura alta, coperta di neve dalla testa ai piedi. Dietro di essa ne apparve un’altra, anch’essa bianca di neve...
«Devo portare dentro anche i colli?» domandò la seconda con voce rauca.
«Non vorrai mica lasciar lì!»
Detto questo, il primo cominciò a slacciarsi il cappuccio e, senza aspettare che i lacci fossero slegati, se lo strappò dalla testa insieme col berretto, e lo scaraventò rabbiosamente verso la stufa. Poi, sfilatosi il cappotto, lo gettò nella stessa direzione e, senza salutare, si mise a camminare su e giù per la stanza. Era un corriere giovane, biondo, con un’uniforme logora e stivali rossicci tutti infangati, Dopo essersi riscaldato un po’ camminando, si sedette al tavolo, allungò gli stivali sudici verso i sacchi, e appoggiò la testa sui pugni. Il suo viso pallido, chiazzato di rosso, portava ancora i segni della sofferenza e della paura or ora provate. Contratto dalla rabbia, con le tracce fresche dei recenti patimenti fisici e morali, con la neve che gli si scioglieva sulle sopracciglia, sui baffi e sulla barbetta tonda, il suo viso era molto bello.
«Vita da cani!» brontolò il postiglione voltando lo sguardo alle pareti intorno, quasi non credesse ancora di trovarsi al caldo. «Per un pelo non andavamo all’altro mondo. Se non fosse stato per il vostro lume, non so cosa sarebbe successo... Sa il diavolo quando finirà questa storia. Non finisce mai questa vitaccia da cani! Dov’è che siamo capitati?» domandò, abbassando la voce e alzando gli occhi verso la moglie del sagrestano.
«Sul poggio di Guljaevo nella tenuta del generale Kalinovskij,» rispose la moglie del sagrestano, sussultando e facendosi rossa.
«Senti, Stepan?» si volse il postiglione verso il vetturino, fermatosi nel vano della porta con il suo grosso sacco sulle spalle. «Siamo capitati sul poggio di Guljaevo!»
«Lo-ontanuccio!»
Pronunciata questa parola come un sospiro rotto e rauco, il vetturino uscì, e poco dopo tornò dentro portando un collo più piccolo, poi uscì di nuovo, e questa volta tornò con la sciabola del postiglione, attaccata a una larga cinta, somigliava a quelle spade lunghe e piatte con le quali è rappresentata Giuditta accanto al letto di Oloferne nelle stampe popolari. Deposti i colli lungo una parete, il vetturino uscì, andò nell’ingresso, si mise seduto e accese la pipa.
«Gradite forse un po’ di te dopo un simile viaggio?» domandò la donna.
«Macché te!» s’accigliò il postiglione. «Bisogna scaldarsi in fretta e ripartire, altrimenti non arriviamo in tempo al treno postale. Stiamo seduti una decina di minuti e poi partiamo. Fateci solo il favore di indicarci la strada.»
«Che castigo di Dio questo tempo!» sospirò la moglie del sagrestano.
«Eh, già... Ma voi chi siete?»
«Noi? Siamo di qui, addetti alla chiesa... Siamo del ceto ecclesiastico... Ecco, lì è coricato mio marito. Savelij, alzati dunque e vieni a salutare! Prima qui era una parrocchia ma un anno e mezzo fa l’hanno abolita: Certo, quando i signori abitavano qui, c’era anche più gente e valeva la pena di tenere una parrocchia, ma ora, senza i signori, giudicate voi stesso, di che devono campare gli ecclesiastici se il villaggio più vicino è Markovka, e anche quello a cinque verste! Ora Savelij è fuori ruolo, e... insomma fa il custode. Ha l’incarico di occuparsi della chiesa.»
E il postiglione venne a sapere che se Savelij fosse andato dalla generalessa e le avesse chiesto una lettera di raccomandazione per sua eminenza, avrebbe ottenuto un buon posto; ma lui non si decide ad andare dalla generalessa perché è pigro e ha paura della gente.
«Comunque, siamo di ceto ecclesiastico...» aggiunse la moglie del sagrestano.
«E di che vivete?» domandò il corriere.
«La chiesa ha un prato e degli orti. Ma ci fruttano poco...» sospirò la donna: «Padre Nikodim, il sacerdote di Djakovo, anima invidiosa, viene a dir la messa a san Nicola d’estate e a san Nicola d’inverno, e per questo si piglia quasi tutto lui. Non c’è nessuno che ci difenda!»




«Tu menti!» sibilò Savelij. «Padre Nikodim è un’anima santa, un luminare della chiesa, e se prende qualcosa lo fa secondo le regole.»
«Com’è rabbioso, tuo marito!» sorrise il postiglione. «È molto che sei sposata?»
«Dalla domenica del Perdono sono quattro anni. Qui prima c’è stato come sagrestano il mio povero papà; poi, quando si accorse che era arrivata per lui l’ora di morire, perché il posto restasse a me, andò al concistoro e chiese che mandassero un qualche sagrestano celibe come fidanzato. E così mi sposai.»
«Ah, sarebbe a dire due piccioni con una fava!» disse il postiglione gettando un’occhiata alla schiena di Savelij.
«Hai trovato un posto e insieme la moglie.»
Savelij agitò un piede in un moto d’impazienza e si accostò ancor più alla parete. Il postiglione si alzò da tavola, si stirò e andò a sedersi su un collo postale.
Dopo aver riflettuto un po’, aggiustò i colli premendoli con le mani, cambiò posto alla sciabola, e si sdraiò sopra i sacchi, lasciando penzolare una gamba sul pavimento.
«Vita da cani...» brontolò, incrociando le braccia sotto la testa e socchiudendo gli occhi. «Neanche a un perfido tartaro augurerei una vitaccia simile!»
Ben presto si fece silenzio. Si udiva solo Savelij che sbuffava, e il corriere che, addormentatosi, respirava lentamente e in modo ritmico, emettendo a ogni espirazione un prolungato e profondo «K-ch-ch-ch». Di tanto in tanto nella sua gola sembrava mettersi a cigolare una rotellina, o, sussultando, frusciava un piede contro i sacchi di tela.
Savelij prese ad agitarsi sotto la coperta e lentamente si voltò a guardare. La moglie era seduta sullo sgabello e, premendosi le guance con il palmo delle mani, fissava il viso del postiglione. Il suo sguardo era immobile, come quello di una persona attonita, spaurita.
«Be’, che hai da guardare con quegli occhi?» sibilò rabbiosamente Savelij.
«A te che importa? Dormi!» rispose la moglie senza staccare lo sguardo da quella testa bionda.
Savelij, in collera, buttò fuori tutta l’aria che aveva nei polmoni e si voltò bruscamente verso la parete. Ma dopo tre minuti cominciò di nuovo ad agitarsi inquieto, si mise in ginocchio sul letto, e, appoggiandosi con le braccia sul cuscino, sbirciò sua moglie. Questa, continuava a fissare, immobile, l’ospite. Le sue guance s’erano fatte pallide, e gli occhi s’erano accesi di una strana fiamma. Il sagrestano tossicchiò, scivolò giù dal letto a panciasotto e, avvicinatosi al postiglione, gli coprì il viso con un fazzoletto.
«Perché fai così?» domandò la moglie.
«Perché la luce non gli batta negli occhi.»
«E allora spegni il lume!»
Il sagrestano guardò con diffidenza la moglie, tese le labbra verso il lume, ma di colpo si arrestò e batté uno contro l’altro i palmi della mano.
«Hm, non sarà un’astuzia diabolica?» esclamò. «Eh? Esiste forse creatura più furba della razza delle femmine?»
«Ah, diavolo in tonaca!» sibilò la moglie, contraendo il viso in una smorfia di dispetto. «Aspetta!»
E, accomodandosi meglio sullo sgabello, tornò a fissare il postiglione.
Non importava che il viso fosse coperto. Non la interessava tanto il viso, quanto tutto l’aspetto insolito di quell’uomo. Il suo petto era largo, possente, le mani belle e sottili, le gambe muscolose, diritte, immensamente più belle e virili delle «zampacce» di Savelij! Non c’era confronto.
«Può darsi che io sia uno spirito maligno in tonaca,» fece Savelij, dopo essere rimasto zitto per un po’ di tempo. «Ma lui non può restare a dormire qui... Già... Lui è in servizio governativo, e ne dovremo rispondere anche noi, di averlo trattenuto qui! Se devi portar la posta, portala, non c’è tempo di dormire... Ehi, senti!» gridò Savelij nell’ingresso. «Vetturino, parlo con te... come ti chiami? Devo accompagnarvi io, forse? Alzati, con la posta c’è poco da dormire!» E Savelij, fuori dai gangheri, fece un balzo verso il postiglione e lo tirò per la manica.
«Ehi, vostra nobiltà! Visto che dovete viaggiare, viaggiate, e se invece non volete, allora son guai!... Non vi conviene, di dormire.»




Il postiglione balzò su a sedere, abbracciò con uno sguardo assonnato la stanza, e si coricò di nuovo.
«Quando volete partire?» ricominciò a tamburellare con la lingua Savelij, tirandolo per la manica. «La posta serve appunto perché arrivi in tempo, mi senti? Vi accompagno io.»
Il postiglione aprì gli occhi. Riscaldato, illanguidito dalla dolcezza del primo sonno, non ancora sveglio del tutto, vide, come in una nebbia, il bianco collo e lo sguardo lucido, immobile della moglie del sagrestano, richiuse gli occhi e sorrise, come se avesse sognato.
«Ma dove vuoi che vadano con un tempo simile?» udì una morbida voce femminile. «Lascia che dormano in pace, e che buon pro gli faccia!»
«E la posta?» s’inquietò Savelij. «Chi la porta la posta? La vuoi portare tu? Tu?»
Il postiglione aprì di nuovo gli occhi, osservò le mobili fossette sulle guance della donna, si ricordò dov’era, comprese le parole di Savelij. Il pensiero di doversi rimettere in viaggio nel gelo e nelle tenebre, dalla testa gli corse giù lungo tutto il corpo con un freddo formicolio e rabbrividì.
«Si potrebbe dormire ancora cinque minuti,» disse sbadigliando. «Tanto, ormai siamo in ritardo...»
«Chissà, magari facciamo proprio in tempo!» si udì la voce del vetturino dall’ingresso. «Con questo tempaccio chissà che anche il treno, per fortuna nostra, non ritardi.» Il corriere si alzò e, stirandosi languidamente, cominciò a infilarsi il cappotto. Savelij, vedendo che gli ospiti si accingevano a partire, si mise addirittura a nitrire di gioia.
«Aiutaci un po’!» gli gridò il vetturino alzando un collo da terra.
Il sagrestano balzò verso di lui, e insieme trascinarono nel cortile il bagaglio del postale. Il postiglione si mise a sciogliere il nodo del cappuccio. E la donna lo fissava negli occhi, e pareva volesse penetrargli nell’anima.
«Potevate bere un goccio di tè...» disse.
«Per conto mio... quelli, vedete, son già pronti,» acconsentì. «Ma tanto ormai siamo in ritardo.»
«E voi rimanete!» bisbigliò la donna abbassando gli occhi e sfiorandogli una manica.
Il postiglione riuscì finalmente a sciogliere il nodo, e, indeciso, si gettò il cappuccio sul braccio. Così, in piedi accanto alla moglie del sagrestano, provava una gradevole sensazione di tepore.
«Che bel collo... che hai...»
E le sfiorò con due dita il collo. Vedendo che non incontrava resistenza, le accarezzò con la mano il collo, le spalle... «Ah, come sei...»
«Potreste rimanere... bere un po’ di tè...»
«Ma dove lo metti, rammollito!» echeggiò la voce del vetturino dal cortile. «Mettilo di traverso!»
«Perché non rimanete?... Sentite come urla la bufera.»
Ancora mezzo addormentato, senza aver avuto ancora il tempo di scuotersi dall’incanto di quel suo sfibrante sonno giovanile, il postiglione fu preso a un tratto dal desiderio, da quel desiderio per il quale si dimenticano i colli e i treni postali... e tutto il mondo. Timoroso, come se volesse fuggire, o nascondersi, sbirciò verso la porta, afferrò per la vita la moglie del sagrestano, e già si stava chinando sul lume per spegnerlo, quando nell’ingresso risuonò un tonfo di stivaloni e sulla soglia apparve il vetturino... Alle sue spalle fece capolino il viso di Savelij. Il corriere ritirò svelto le mani e rimase fermo, come sopra pensiero.
«È tutto pronto!» disse il vetturino.
Il postiglione rimase per un po’ immobile, poi scosse bruscamente il capo, come se finalmente si destasse, e si avviò dietro al vetturino. La donna rimase sola.
Pigramente cominciò a tintinnare una sonagliera, poi un’altra, e i suoni squillanti, sottili, come una lunga catena, si allontanarono dalla casetta.
Quando, a mano a mano, ogni suono si spense, la moglie del sagrestano si riscosse dalla sua immobilità e cominciò a camminare nervosamente da un angolo all’altro della stanza. Da principio era pallida, poi s’infiammò tutta. Il suo viso era sfigurato dall’odio, il respiro le si fece affannoso, gli occhi brillavano di un rancore selvaggio, feroce, e andando su e giù come in gabbia, somigliava ad una tigre che sia stata spaventata con un ferro rovente. Si fermò un momento ad osservare la sua abitazione; poco meno della metà della stanza era occupata dal letto, che si stendeva lungo tutta una parete ed era composto di un piumino sudicio, di cuscini ruvidi e grigi, di una coperta e di vari stracci indefinibili. Questo letto era un brutto cumulo informe, poco diverso da quello che si ergeva sulla testa di Savelij, quando gli veniva l’estro di impomatarsi i capelli. Tra il letto e la porta che dava nel gelido ingresso c’era la grande stufa scura, con dei tegamini e dei cenci appesi. Tutto, compreso Savelij che in quell’attimo era uscito, era sporco fino all’inverosimile, unto, fuligginoso, tanto che era strano vedere in mezzo ad un tale sudiciume il collo bianco e la pelle tenera e delicata di una donna. La moglie del sagrestano corse verso il letto, stese le braccia come se volesse buttare all’aria, calpestare, mandare in polvere tutta quella roba, ma poi, quasi inorridita dal contatto con quel sudiciume, balzò indietro e si mise di nuovo a camminare da un angolo all’altro.
Quando, circa due ore dopo, Savelij tornò esausto e coperto di neve, la donna era già a letto, spogliata, Aveva gli occhi chiusi, ma, dal sottile tremito che percorreva il suo viso, egli indovinò che non dormiva, Tornando a casa si era ripromesso di tacere, e di non molestarla fino al mattino, ma ora non seppe trattenersi dallo stuzzicarla.
«Non sono servite a niente le tue stregonerie: è partito!» disse sogghignando dispettosamente.
La moglie del sagrestano taceva, solo il suo mento ebbe un tremito. Savelij si spogliò lentamente, scavalcò la moglie e si coricò verso la parete.
«Domani, però, spiegherò a padre Nikodim che razza di moglie sei!» brontolò, raggomitolandosi tutto.
La moglie voltò di colpo il viso dalla sua parte e lo fulminò con gli occhi.
«Perderai il posto!» disse. «E la moglie va’ a cercartela nel bosco! Che razza di moglie sono io per te? Che tu possa crepare! Mi si è appiccicato addosso, questo dormiglione, questo orso, che Dio mi perdoni!»
«Via, via, dormi!»
«Sono una disgraziata io!» singhiozzò la donna. «Se non ci fossi stato tu, chissà, io forse avrei sposato un commerciante o un qualche nobile. Se non ci fossi stato tu, io adesso vorrei bene a mio marito! Perché non sei rimasto sepolto sotto la neve, perché non sei morto lì, sulla strada, Erode!»
La donna pianse a lungo. Alla fine tirò un sospiro profondo e si calmò. Fuori continuava ad infuriare la bufera. Nella stufa, nel camino, dietro tutti i muri qualcosa piangeva, e a Savelij pareva che il pianto fosse dentro di lui, nelle sue orecchie. Quella sera si era definitivamente convinto della giustezza delle sue supposizioni riguardo alla moglie. Non dubitava più del fatto che sua moglie, con l’aiuto di forze demoniache, avesse potere sul tempo e sulle trojke della posta. Ma, quasi a raddoppiargli la pena, quel misterioso, soprannaturale selvaggio potere conferiva alla donna coricata accanto a lui un fascino tutto particolare, incomprensibile, che fino a quel momento non aveva mai notato. Da quando per stupidità, senza rendersene conto, l’aveva egli stesso poetizzata, sembrava che fosse diventata più bianca, più liscia, più inaccessibile...
«Strega!» s’indignava. «Ah, schifosa!»
E tuttavia, dopo aver atteso che si fosse calmata, quando la sentì respirare regolarmente, provò a toccarle la nuca con un dito... strinse nella mano la sua grossa treccia.
Lei non sentiva nulla... Allora, fattosi più ardito, la accarezzò sul collo.
«Smettila!» gridò lei, e col gomito gli diede un colpo così violento alla radice del naso, che il sagrestano vide le stelle.
Il dolore al naso cessò presto, ma il tormento continuava ancora.


Anton Pavlovič Čechov (1860-1904), Ved'ma

(Traduzione a cura di Ettore Lo Gatto)
(Immagini: Andrey Avtomonov)

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